Lo ammetto, quando ho visto che “A Classic Horror Story” era italiano, ho sbuffato.
E ho pensato:
“Ecco, un altro film che si rivelerà essere una boiata pazzesca, tanto noi italiani non siamo capaci di fare film horror.”
Non mentite, lo avete pensato tutti almeno una volta nella vostra vita.
Il motivo è che sono quasi 40 anni che in Italia non si produce niente di rilevante in ambito horror/thriller ma noi siamo stati maestri del genere. A partire da Mario Bava, maestro indiscusso del gotico italiano e capostipite dello slasher (Reazione a catena) e del giallo/thriller italico (La ragazza che sapeva troppo).
Barbara Steele in “La maschera del demonio” di Mario Bava, 1960
E poi Riccardo Freda, Lucio Fulci, Pupi Avati, Aristide Massaccesi, Sergio Martino, Antonio Margheriti, Aldo Lado, Tonino Valerii, Massimo Dallamano, Duccio Tessari, solo per fare un piccolo esempio e non citare sempre e solo Dario Argento, che raccolse per bene gli insegnamenti, lasciandoci pellicole entrate nell’immaginario collettivo.
“A Classic Horror Story” si rivela essere quello che proclamava: è una classica storia horror.
L’inizio è promettente: i cinque personaggi protagonisti, che stanno per partire con un camper verso il Sud Italia, pronunciano chiaramente le parole che dicono, sono credibili e sanno recitare.
Niente, già così dovreste essere gasatissimi, primo scoglio superato, tutto il resto è in discesa.
I cinque personaggi, dicevamo, non si conoscono ma condividono il viaggio, organizzato tramite una app di carpooling. Nel mezzo dell’entroterra calabrese hanno un incidente, andandosi a schiantare contro un albero; si risveglieranno in una radura (camper compreso), di fronte ad una vezzosa casetta di legno molto inquietante che non può non ricordarci film come “Midsommar” o “The Ritual”.
Per l’appunto, tutta la prima metà del film è una elegante carrellata di molti dei più famosi film horror degli ultimi anni, ripercorsi uno alla volta, seguendo le classiche dinamiche che caratterizzano i film del genere (come il gruppo di amici che comincia un viaggio, registra tutto con la videocamera, un imprevisto li coglie di sorpresa, ritrovandosi di lì a poco a vendere cara la pelle).
La casetta di “A Classic Horror Story”
Tutto bello ma tutto già visto.
I nostri cinque eroi cercheranno di allontanarsi senza successo, ritornando amaramente al punto di partenza, costretti a scappare da un gruppo di fanatici mascherati, per evitare di diventare il piatto forte di un ancestrale rito pagano.
Tra una strizzata d’occhio a “The Wicker Man”, un’impressione di “The Evil Dead” e un’ombra di “True Detective”, pensiamo di avere già inquadrato il film e avere capito tutto.
Tutto molto maestoso, truculento, pagano al punto giusto. Appunto, troppo giusto.
Troppo prevedibile. Troppo calcolato.
Ed è qui che avviene il “twist” o, per noi italici, il “colpo di scena” che sovvertirà le regole fin qui seguite, trasformando il film completamente. Qui che avviene la rivelazione e si accende la lampadina; possiamo tirare un sospiro di sollievo, contenti per una volta che le speranze non siano state vane.
Ora capiamo che i registi ci hanno preceduto tutto il tempo, ci hanno condotto dove volevano loro, tramite briciole di pane, hanno previsto i nostri sbuffi, le nostre reazioni, i nostri pensieri.
Ci hanno fatto vedere quello che volevamo, quello che ci aspettavamo, ci hanno preso in giro con maestria, NOI spettatori tronfi e vanesi, NOI poveri illusi di possedere la verità assoluta in fatto di cinema.
Rassegnatevi gente: ci hanno perculato. E hanno fatto bene!
La nuova veste del film si riallaccia allo stile di “My little eye” ma immerso in toto nella nostra tradizione popolare, scavando nel lato oscuro dell’identità italica e facendone fuoriuscire i mostri.
Nel finale si tende verso uno stile tarantiniano ma considerando che Tarantino ha preso a piene mani dal cinema di genere italiano, forse anche quello è roba nostra.
La protagonista di “A Classic Horror Story”
Molto bello, ironico, fresco, godibile.
La colonna sonora è perfetta, di grande effetto l’utilizzo di due classici della canzone italiana come “La casa” cantata da Sergio Endrigo e “Il cielo in una stanza” di Gino Paoli, come accompagnamento musicale alle scene di tortura più truculente. E’ impossibile non pensare subito al film di Lucio Fulci “Non si sevizia un paperino”, dove la maciara interpretata da Florinda Bolkan, veniva lapidata in pieno giorno, sulle note di “Quei giorni insieme a te” cantata da Ornella Vanoni.
I registi lo sanno benissimo, conoscono le pietre miliari del genere e ne prendono ispirazione, riproponendo quell’immaginario nel loro stile.
Florinda Bolkan in “Non si sevizia un paperino” di Lucio Fulci, 1972.
E’ un film essenziale da avere nel proprio catalogo? Forse sì, forse no, decidetelo da soli. Secondo me è importante guardarlo, soprattutto se siete italiani.
Perchè l’horror italico è rimasto tumulato in una cripta per quasi 40 anni ma sembra che si sia risvegliato.
Sento grattare alla porta.
Paese: Italia
Regia: Roberto De Feo & Paolo Strippoli
Anno: 2021
Impressione: Bello e intelligente
POST SCRIPTUM:
Ho letto “recensioni” e “commenti” su questo film, da far rizzare i peli di Belbezù. La totalità delle persone insoddisfatte non lo ha capito.
Non lo ha capito.
PER OSIRIDE E PER ATTIS!
Non lo ha capito.
A chi piaceva il registro della prima parte e voleva andasse avanti così (citazionismo tutto il tempo, senza trama, eccerto) e il colpo di scena l’ha rovinato (OK).
A chi non piaceva il riferimento al metacinema finale con “Bloodfix” perchè “non ha senso, cosa c’entra” (finalino in cui si perculano quelli che scrivono sui social ESATTAMENTE quelle cose, quindi i perculati che non capiscono di essere perculati. AIUTO).
A chi ha fatto tutto schifo perchè gli italiani non sanno fare i film horror (questa è suprema, il film è fatto pensando a loro e loro non capiscono. Meraviglia).
Non fidatevi dei commenti al film che leggete in giro, il livello degli spettatori è medio/basso non possiamo pretendere, si accontentano degli horror faciloni americani di bassa lega.
Questo mi ricorda il gruppo di ragazzi seduto di fronte a me al cinema, alla visione di “Hereditary” di Ari Arister. Alla fine dei titoli di coda e annessa riaccensione delle luci, uno di loro si girò verso i propri compari esclamando:
“Mi sta esplodendo il cervello, non so cosa ho visto, non ci ho capito niente”.
Amen fratello.